Pierfranco Fornasieri: “L’immagine non è mai una storia con un solo finale”

“Seconde storie". Un lavoro fotografico alla ricerca di storie sospese

da Adexo.it

 

"Quando impugno la mia fotocamera ed esco a scattare non lo faccio mai per caso, e neppure a caso. Cerco quello che voglio trovare, spesso per strada o nei posti dove ci sono persone". 

Pierfranco Fornasieri ci racconta i suoi momenti dietro la macchina fotografica.

Ci sarà stato senz’altro un momento in cui la fotografia è entrata nella tua vita. Quando vi siete incontrati e quale il bagaglio di suggestioni che hanno preparato il terreno per accoglierla?

La fotografia si è introdotta con prepotenza nella mia vita a seguito dell’impulso irrefrenabile di raccontare; che secondo me non fa necessariamente rima con inventare. Quindi l’incontro con la fotografia importante (avvenuto in modo banale, osservando una mostra, decenni fa) ha trovato da subito in me un terreno molto fertile. Alcuni dicono che, nel vedere le mie immagini, non si può non pensare che io abbia avuto come riferimento alcuni grandi maestri francesi del novecento. Io dico che probabilmente hanno ragione. Assieme a loro però molti fotografi italiani e torinesi, i film di Fellini, i romanzi di Simenon, gli Haiku giapponesi, la musica jazz e, se vogliamo azzardare un po’ di più, anche la cucina casalinga emiliana.

Raccontaci l’attimo dello scatto e la prima emozione che senti.

Ogni volta che inquadro e scatto c’è qualcosa che mi vibra dentro. La mia anima brucia, in silenzio.

L’impressione che si trae davanti ai tuoi lavori è, spesso, quella di entrare in atmosfere alternative che possono essere lette in maniera personale. Hai un indirizzo interpretativo che vuoi trasmettere allo spettatore o preferisci raccontare e lasciare la libertà di lettura a chi guarda?

Credo che una buona fotografia debba lasciare dei punti in sospeso. Non deve spiegare, solo abbozzare. Il senso di una fotografia non esiste, se non c’è qualcuno che muove i suoi pensieri personali partendo dall’immagine che ha davanti. La mia narrazione fotografica non può prescindere dalla presenza di un osservatore: non riuscirebbe a compiersi completamente. Fatta questa premessa, ci sono volte in cui la “bozza” che metto davanti a chi osserva ha linee più nitide e marcate, altre volte meno. Ma l’immagine non è mai una storia con un solo finale.

Parliamo del tuo progetto “Seconde storie”. Cosa ti interessava di questa esperienza?

“Seconde storie" è un lavoro fotografico che dura da più di tre anni, alla ricerca delle storie sospese, quelle degli altri, siano esse in divenire o già accadute. Sono fotografie che cercano di fissare un attimo, un momento di qualcuno o di qualcosa che rappresenti un crocevia. Il punto di arrivo di strade precedenti e il diramarsi di quelle successive: le Seconde Storie.

Ha una sicura genesi di tipo introspettivo, probabilmente alimentato dalle mie personali difficoltà a vivere a cuor leggero il fatto di dover compiere delle scelte, assieme alla mia naturale propensione a vivere nell’immaginario i film di ciò che mi passa davanti agli occhi.

La pubblicazione del libro è un passo deciso, all’interno del progetto. Le fotografie che lo compongono sono state realizzate in luoghi che stanno fra il Piemonte, la città di Torino, la Toscana, le Venezie, Parigi, diverse città spagnole… e molti altri ancora. Un Nonluogo, in realtà, generato da anni di visioni impressionate su carta.

La tua fotografia si esprime prevalentemente su attimi che sembrano rubati. Ci racconti se è vero e, in ogni caso, il tuo rapporto col soggetto scelto?

Nessuna delle fotografie che scatto è preparata. Sono tutti attimi colti al volo, senza disturbare le persone in scena e cercando di non essere invasivi. Possiamo anche definirli rubati, se vogliamo, ma in maniera gentile. Avidamente “prese in prestito” sono però le storie e tutte le vite possibili, anche quelle delle persone ritratte, che orbitano attorno all’immagine stessa.

Negli attimi in cui cerco, vedo, valuto e scatto, mi passano davanti agli occhi i racconti di mille vite. I soggetti delle mie immagini sono l’enzima che mi lega indissolubilmente anche solo per un istante a storie altrui.

La strumentazione che ti accompagna?

Da alcuni anni utilizzo fotocamere digitali a telemetro. Sono macchine robuste e resistenti, prive di automatismi, alle quali abbino degli obiettivi a fuoco manuale. Mi piace molto questo approccio minimalista allo scatto così come mi piace il fatto di essere libero di sbagliare le fotografie per conto mio, senza alcun aiuto da parte della fotocamera.

Su che tipo di progetto fotografico stai lavorando oggi e, soprattutto, come capisci che è arrivato il momento per abbandonare il precedente e concentrarti sul successivo?

Il mio Seconde Storie non è finito. Me ne accorgo dalla mia voglia di cercarne ancora. Però di recente non ho più quella frenesia che mi guidava fino a qualche mese fa e riesco a dedicarmi anche ad altro. La fine di un lavoro, più che capirla, la sento. Attualmente ho in progetto un lavoro di reportage su un luogo particolare d’Italia, dove il tempo ogni giorno sembra quasi ristagnare. Mentre ne ho appena incominciato un altro, assai impegnativo, sulle solitudini.

Quando scatti, sul piano strettamente pratico, cosa ti affascina? Parlaci di ciò che richiama il tuo interesse.

Nei miei lavori, pur essendo immagini colte al volo, anche se non sembra c’è molta progettualità. Per farti capire cosa intendo, basta raccontare di quando nel rivedere le Seconde Storie, durante una di quelle sessione di editing con tutti i provini sul tavolone che ti servono a capire dove stai andando, mi sono accorto che scarseggiavano quelle raccontate attraverso persone che interagiscono tra loro: quindi per diversi mesi mi sono mosso alla ricerca di gente che si guardava, che si scambiava sguardi d’intesa, che si divertiva in gruppo o in coppia, complicità, discussioni, insegnamenti. La vera sfida però è sempre al momento dello scatto: quella di riuscire a metterci dentro solo quello che serve e nulla di più.

 

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